17 maggio 2022

Votare sì ai referendum è un no agli abusi dei Pm


 Per rispetto del lettore ho il dovere di un’avvertenza che è anche una confessione: sostengo i referendum sulla giustizia. Avvertenza d’obbligo perché le considerazioni che farò sono per definizione “di parte”. Sono una presa di posizione che non rientra nelle valutazioni tecniche di un tecnico, ma nelle valutazioni di opportunità politica. E voglio evitare il rischio che spesso i tecnici, più o meno dolosamente corrono (seconda avvertenza al lettore) di giustificare le valutazioni di opportunità adducendo ragioni oggettive, presentate come conseguenze quasi automatiche dal sapere scientifico. In questo caso il sapere del costituzionalista.

Nel caso dei referendum in questione mi basta la convinzione che le opzioni in gioco sono perfettamente conformi alla Costituzione, non determinano cioè, malgrado qualcuno pensi e dica il contrario (terza avvertenza al lettore), nessun attentato alla nostra Carta fondamentale. Che siano conformi alla Costituzione non sono io a dirlo, ma lo dimostrano gli argomenti utilizzati dalla Corte costituzionale, un paio di mesi fa, per dichiarare l’ammissibilità delle proposte referendarie. Basta leggere le sentenze, per chi ne avesse voglia. Aggiungo che nel caso dei referendum, e di questi in particolare, anche per il momento storico in cui cade la consultazione, ancor prima del merito e delle valutazioni che se ne possono fare, è in gioco una questione forse persino più importante. Come si sa il referendum richiede un quorum di validità molto alto. Se non va a votare la metà degli italiani (circa 33 milioni) il referendum non è valido. Indipendentemente dal fatto che chi ha votato si sia espresso per il sì o per il no. Negli ultimi 25 anni, su 28 referendum abrogativi, come gli attuali, solo tre hanno raggiunto il quorum.

La dimensione di questo fenomeno non può essere attribuita solo al disinteresse specifico sui temi referendari, ma ha tante cause (checché se ne dica: quarta avvertenza).
Certamente una di queste è l’andamento del fenomeno dell’astensione. Che non colpisce solo i referendum, ma tutti i tipi di elezione. I nostri costituenti erano stati ottimisti. Avevano sottovalutato questo fenomeno. Pensavano che i cittadini avrebbero partecipato di più. E certamente non avevano pensato che una delle tecniche utilizzate da chi è per il “NO” a un referendum sarebbe stata quella di sfruttare il tesoretto dell’astensionismo generalizzato per sommare ad esso la propria contrarietà. E, anziché dire no a viso aperto, rifugiarsi anche loro nell’astensione. Non parlare di un referendum, dimostrarsi distratti aumenta la probabilità che all’astensionismo naturale e all’astensionismo interessato dei contrari si aggiunga un terzo astensionismo indotto. Quello di chi non sa che ci sarà un referendum. E ciascuno di noi sicuramente può pensare a propri conoscenti o amici che di questi come di altri referendum assolutamente non sanno nulla.

Il quarto tipo di astensionismo è quello di chi rivendica di non essere sufficientemente competente per esprimersi con cognizione di causa. È un argomento da rispettare. Perché indica, quando è sincero, un grande rispetto per la cosa pubblica. Ma è un argomento pericoloso. Perché da qui a teorizzare la democrazia dei sapienti il passo è breve. E se la democrazia è cosa dei sapienti, perché consentire a tutti di votare? Nella teoria politica liberale, invece, il problema della conoscenza non è ignorato, ma risolto in modo da renderlo compatibile con l’ideale democratico, che vuole che nessuno sia escluso dal potere di decidere in ragione della propria incompetenza (vera o presunta). Conoscere per deliberare, scriveva Einaudi. E sui temi del referendum conoscere è possibile, purché si venga informati del fatto che ci sarà da deliberare, il 12 giugno, ed è dunque utile conoscere, farsi un opinione. Conoscere è possibile perché dietro ai quesiti referendari ci sono questioni molto chiare, che implicano scelte di altissimo valore politico. Scelte che incidono sulla nostra vita concreta.

Una delle peggiori conseguenze dello scontro tra politica e magistratura in questi anni è stato il diffondersi dell’idea che le questioni della giustizia riguardino solo la pretesa della politica di mettere la museruola ai magistrati o quella dei magistrati di volerla farla pagare ai politici. Uno scontro di potere, insomma. Due banalizzazioni (che certamente hanno del vero), ma che hanno avuto l’effetto di far pensare che i problemi di cui si parla non riguardino il cittadino comune. Purtroppo gli esempi di cattivo funzionamento della giustizia, quali che ne siano le cause, si abbattono inesorabilmente sui cittadini che, per un motivo o per l’altro, vengano in contatto con essa. Si tratti di processi che durano un’infinità e finiscono, così, per mortificare le ragioni di chi ha ragione o di casi (tre all’anno dicono le statistiche) di persone che finiscono in carcere da innocenti, perché solo molti anni dopo un processo stabilirà la loro innocenza. La lista è lunga.

Interrogarsi sulla separazione delle funzioni tra pubblico ministero e giudice, sulle norme che rafforzano il potere delle correnti, sul modo in cui la valutazione dei magistrati avviene, sulle regole della custodia cautelare o sul perché l’effetto afflittivo di una sanzione amministrativa, che determina la decadenza o la sospensione da un pubblico ufficio, non debba essere prevista da una norma penale, com’è sempre avvenuto, con tutte le garanzie che la Costituzione assicura, ma essere piuttosto imposta da una legge che può anche avere applicazione retroattiva, sono alcune questioni cruciali per la giustizia e per i cittadini. E di questo si occupano i referendum. Contrastare le quattro forme di astensionismo di cui ho parlato non è solo interesse di chi sostiene il “SÌ”, ma anche di chi, semplicemente, crede che valga ancora la pena di conoscere e deliberare. Se è così, ancor prima del quorum, l’obiettivo dev’essere quello di informare. Lo può fare chiunque, alzando il telefono, postando su un social o mettendo sulla giacca una coccarda che susciti curiosità. A chi può, spetta fare anche di più. E ci auguriamo che lo faccia.

Giovanni Guzzetta