L’ex magistrato Carlo Nordio è uno dei più attivi frontman della campagna referendaria per i cinque sì ai quesiti sulla giustizia giusta promossi da Lega e Partito Radicale (alla quale hanno aderito FdI, FI, IV, +Europa, Azione e parte del PD). Presiede l’associazione “Sì per la libertà, sì per la giustizia”, di cui sono vice presidente Bartolomeo Romano, tesoriere Andrea Pruiti Ciarello, e componenti Giovanni Guzzetta e Gippy Rubinetti. Con Nordio, ad un mese dal fatidico 12 giugno, facciamo il punto sui referendum ma anche sullo stato di agitazione dell’Anm e sulle riforme promosse dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia.
Manca un mese alla data di voto del referendum. Qual è il messaggio che occorre trasmettere a favore del sì?
È un messaggio essenzialmente strategico. Indipendentemente dai singoli quesiti, che comunque andranno spiegati ai cittadini per la difficoltà tecnica della loro interpretazione, conta proprio il messaggio che può derivare da una vittoria referendaria: la volontà di un cambiamento radicale del nostro sistema penale, contrassegnato dalla lentezza dei processi, dall’abuso della custodia cautelare, dal protagonismo di alcuni magistrati, dalla baratteria di cariche correntizie del CSM emersa dallo scandalo Palamara, dall’estromissione di politici e amministratori per via giudiziaria, e potremmo continuare. All’opposto, se la maggioranza dei cittadini non andasse a votare, significherebbe che le cose stanno bene così.
La magistratura pensa che con i referendum si tenti di trasformare il pronunciamento dei cittadini in un pro o contro di essa, in un momento di sua debolezza. Come replica?
Che è esattamente il contrario. Il referendum mira a valorizzare proprio quella magistratura estranea al gioco delle correnti, che ha subìto un immeritato discredito in seguito agli scandali emersi dalla vicenda di Palamara. Sulla quale peraltro il Csm ha cercato di stender un velo pietoso radiando l’ex capo del sindacato come se fosse l’unico responsabile di un sistema consolidatosi in anni, o decenni, di cui tutti erano consapevoli.
Un quesito, quello sui Consigli giudiziari, si intreccia anche con la riforma Cartabia. La magistratura non vuole aprire agli avvocati nel momento delle valutazioni professionali, perché temono conflitti di interesse. Che ne pensa?
Che i vertici del sindacato della magistratura non vogliono che il loro potere venga diluito. In realtà gli avvocati devono avere pari dignità anche nei consigli giudiziari, perché partecipano della giurisdizione esattamente come i pubblici ministeri. Aggiungo che se può sembrare singolare che un domani un avvocato dia il voto a un giudice che gli ha dato ragione, è altrettanto singolare che questo lo faccia un pubblico ministero, al quale il giudice ha dato torto, come tuttavia avviene ora.
Rimanendo in ambito di valutazioni, l’Anm sta facendo una battaglia anche contro il nuovo fascicolo di performance, soprattutto perché verranno presi in considerazione gli esiti dei procedimenti. Qual è il suo pensiero in merito?
Che sia necessario distinguere tra giudice e Pm. Per il primo è difficile parlare di errore, a meno che non emerga la sua ignoranza della legge o degli atti processuali. Tra l’altro le Corti d’assise, che giudicano dei reati più gravi, sono composte in maggioranza da giudici popolari. Per i Pm, al contrario, è giusto valutare quante inchieste siano state imbastite, magari con costi altissimi in denaro, sofferenze e dispersioni di energie, senza ragioni plausibili, o magari per motivi discutibili. Molte vite sono state distrutte per indagini che si sono rivelate infondate, o addirittura balorde, e di cui nessuno ha mai chiesto nemmeno scusa.
Un altro quesito che pure si intreccia con la riforma in discussione in Parlamento è quello sulla separazione delle funzioni. Anche questo viene osteggiato perché si perderebbe quella osmosi tra magistratura requirente e giudicante. Si sostiene che determinerebbe nel tempo una perdita di sensibilità da parte del pm in relazione al rispetto delle garanzie. C’è questo rischio?
Assolutamente no. I magistrati che si oppongono alla separazione delle carriere recitano la petulante litania della “cultura della giurisdizione”. Senza accorgersi della contraddizione logica in cui si attorcigliano. Perché o la giurisdizione è intesa in senso stretto, come “ius dicere”, e allora riguarda solo i giudicanti. Oppure è intesa in senso estensivo come dialettica processuale, e allora i protagonisti sono tre: il giudice, l’accusa e la difesa. Aggiungo che la separazione delle carriere è consustanziale al processo accusatorio da noi introdotto più di trent’anni fa, e mai attuato pienamente. Anzi è stato demolito dalla Corte Costituzionale dove tra l’altro sedeva il professor Vassalli che lo aveva firmato. Un’altra contraddizione del nostro sistema sfasciato.
Come giudica il fatto che l’Anm il prossimo 16 maggio sciopererà contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario?
Un magistrato ha due volti. Il primo è quello impiegatizio, perché riceve uno stipendio e una pensione. E su questi temi avrebbe tutto il diritto di scioperare, perché è un lavoratore come gli altri. Ma il secondo volto è quello del cosiddetto terzo potere, il suo compito è quello di applicare le leggi, non di contestarle o peggio, come giustamente ha notato su queste pagine il professor Padovani, di influenzare il Parlamento eletto dal popolo sovrano. Ritengo quindi che questo sciopero sia illegittimo, e che aumenti la sfiducia e la diffidenza dei cittadini verso di noi.
Lei citava il prof. Padovani che proprio ieri in una intervista ha detto: «Il nostro è un Paese che miniaturizza l’idea di errore giudiziario. Esso è considerato tale solo quando produce una condanna ingiusta rispetto alla quale c’è da risarcire una detenzione. Ma a mio parere siamo in presenza di un errore giudiziario ogni volta che si subisce un processo per poi essere assolto». È d’accordo?
L’attività del giudicare è quasi divina, o divinatoria, perché oltre a ricostruire un fatto occorre anche entrare nella testa di chi lo ha commesso, cioè definire l’elemento psicologico: colpa, dolo, preterintenzione, o anche travisamento di circostanze. Quindi non so se sia giusto parlare di errore di una sentenza in quanto tale. Varie sentenze vengono poi smentite nei vari gradi di giudizio. Ne abbiamo tre, perché è un numero magico, trinitario, pitagorico ed hegeliano. Ma se ne avessimo cinque o sei probabilmente avremmo riforme ancora più numerose. Ma vista dalla parte del cittadino la cosa è esattamente come dice il Professor Padovani. È una vittima, e va risarcita, o quantomeno sollevata dalle spese legali.
Giornalisti e magistratura continuano a stigmatizzare la direttiva sulla presunzione di innocenza.
La presunzione di innocenza è scritta nella Costituzione, anche se con qualche bizantinismo metafisico alcuni sostengono che si parla di presunzione di “non colpevolezza”, come se non fosse la stessa cosa. Certo, vi sono dei casi, come i reati in flagranza o magari commessi in pubblico dove questa presunzione si affievolisce. Ma come principio è sacro.
Che rapporto c’è attualmente tra magistratura e politica?
La politica non si è ancora riapprovata dei poteri che ha sconsideratamente ceduto ai magistrati in tutti i campi, compresa l’abolizione dell’immunità parlamentare. Ma se la politica non si è rafforzata è vero che la magistratura si è indebolita, e quindi la bilancia si sta riequilibrando. La politica dovrebbe cogliere questa occasione non certo per punire i magistrati, ma per ritornare ai ruoli previsti dalla Costituzione.
Che bilancio fa delle riforme di mediazione Cartabia?
Qualcosa di buono c’è, e comunque era il minimo sindacale per ottenere gli aiuti europei. Credo che Cartabia avrebbe preferito soluzioni più garantiste, ma le riforme le fa il Parlamento, e questo non ha né il tempo né la volontà politica per farlo. Speriamo nel prossimo.
Angela Stella