27 agosto 2021

L'intervista alla sen. Valeria Valente: «Gravissimo dire che nel caso di Vanessa non si poteva usare il braccialetto elettronico»

 

Valeria Valente, presidente della commissione contro il femminicidio: «Non posso pensare che un giudice possa credere che non c’era nulla da fare»

di Giacomo Puletti

Senatrice Valente, qual è stata la sua reazione di fronte all’omicidio di Vanessa Zappalà?

Innanzitutto ho il dovere di smentire quanto leggo rispetto all’omicidio di Vanessa, quando si dice che non si poteva utilizzare il braccialetto elettronico. («Oggi il braccialetto elettronico si può metter solo agli arresti domiciliari», ha detto Nunzio Sarpietro, presidente dell’Ufficio gip di Catania, ndr). Nel 2019, con la modifica dell’articolo 282 ter comma 1 del codice di procedura penale abbiamo esteso l’uso del braccialetto anche alla misura cautelare del divieto di avvicinamento, quindi anche nel caso in questione. Quanto affermato è gravissimo.

Si riferisce all’intervista a Repubblica in cui in sostanza il gip ha spiegato che non c’era nulla da fare se non quello che ha fatto.

Non posso pensare che un giudice possa credere che non c’era nulla da fare. Se si parla di labilità psichica stiamo condannando le donne e non è accettabile. Dire che è stata concessa la misura più tenue perché si erano chiariti è aberrante perché tutti sanno quante volte situazione che sembrano chiarite poi degenerano di nuovo, spesso in peggio. Bisogna leggere le violenze in maniera corretta ed essere adeguatamente formati per applicare le norme che ci sono. La prima sfida da vincere è questa, la seconda è quella di migliorare il sistema.

Da cosa è stato causato secondo lei il cortocircuito?

Mi permetto di dire che in molti casi una grande criticità è la mancata specializzazione degli operatori. Proporrò alla commissione di acquisire gli atti del procedimento per capire bene la dinamica del fatto. Non sono ancora in grado di dire dove sia stato il cortocircuito ma è quello che voglio capire. Una donna che denuncia non può morire, è una sconfitta di tutti noi. Abbiamo fallito tutti: istituzione giudiziarie e politiche.

Con quali conseguenze?

Non applicare le norme esistenti è una gravissima ragione che potrebbe spingere tante altre donne a non denunciare, sapendo quali sono i rischi. Noi dobbiamo proteggere le donne che denunciano e se non siamo in grado di farlo allora è un fallimento. Nel caso di specie c’erano norme che non sono state utilizzate. Ma ripeto che per capire dove è stato fatto l’errore devo guardare le carte.

Torniamo sulla specializzazione dei gip, quanto è grave il problema e cosa servirebbe per risolverlo?

Sul tema della specializzazione degli operatori del sistema giustizia, dagli avvocati ai consulenti fino ai giudici siamo ancora molto indietro. La questione diventa particolarmente critica per i gip. C’è in ogni caso una questione culturale che investe il tema giustizia. Ricordiamo sempre a noi stessi che le misure cautelari nel sistema della violenze noi le abbiamo mutuate dal codice antimafia e sono legate a una valutazione della pericolosità sociale del soggetto. Di fronte a ciò facciamo una scelta molto forte, limitando la libertà personale del soggetto prima dell’esito del processo e la motiviamo pensando che la tutela della vittima prevalga rispetto alla libertà di un soggetto che in molti casi è ancora solo indagato.

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